– Gen. BA Giorgio Russo –
Cipro è lontana, ora. Dalla superficie irta e appuntita si vede l’azzurra magnificenza del mare che si stende a perdita d’occhio, ma le acque non sono più quelle del Mediterraneo. Di fronte a me, adesso, si apre lo sconfinato Oceano Indiano. Sotto i piedi, le taglienti lame rocciose che arrivano quasi a bucare le suole di gomma, appartengono alla scogliera che delimita l’aeroporto di Mogadiscio. È la base del nostro accampamento per la missione Albatross Somalia – Restore Hope.
Da lì decolliamo per sorvolare una natura dalla bellezza sconvolgente. Oasi, deserti e foreste di acacie si susseguono in un’alternanza da copione cinematografico. Peccato che il territorio sia piatto e attraversato da gentiluomini armati che non esitano a sparare all’impazzata, scorrazzando su pick-up trasformati in mitragliere con quadrinate sovietiche, che hanno lo strano appellativo di Tecnike. In strada, le raffiche sembrano sostituire il rumore del traffico, per quanto sono ubique e costanti. La minaccia è onnipresente per il volo a bassa quota. Come difendersi? Adottando l’unica soluzione possibile: volare a “quota cespuglio”. Tanto da lasciare a volte una scia al suolo identica a quella di una barca, con l’unica differenza che a sollevarsi non sono spruzzi d’acqua ma nuvole di polvere marroncina. Succede poi che, là dov’è più verde a causa dell’acqua, la piattezza del suolo a volte esploda in nuvole colorate. Al tondo rombare dell’H3, infatti, gli scintillanti specchi d’acqua fanno levare in volo un’inimmaginabile quantità di uccelli dalle mille striature, d’ogni dimensione e peso. Ecco allora che il muso dell’elicottero è costretto ad arrampicarsi con una rapidissima cabrata, per evitare che la bellezza della natura si trasformi in un muro di proiettili, certamente più belli, ma sicuramente altrettanto micidiali.
L’atterraggio fuori campo, poi, è l’apoteosi. Jalalassi ha un suono accattivante, ma è un avamposto piazzato in un posto incredibile. Quando arrivi in effetto suolo, una nuvola ti avvolge completamente e vai in india mike completo. La visibilità è nulla, la polvere impalpabile penetra ovunque, smeriglia le turbine, lisciandole all’inverosimile, e riempie il naso e la gola. Fuori vedi solo marrone scuro con nuances rossastre, anch’esse scurissime. Scendi verso terra proiettando all’esterno tutte le tue sensazioni per sentire l’approssimarsi del terreno. Fino a riemergere molto tempo dopo aver fermato il rotore, guardando il lento riapparire di contorni quasi irreali.
Era più o meno da quelle parti, quando atterrammo per un rendez-vous con una pattuglia di paracadutisti. La nuvola dell’atterraggio si stava dissolvendo. Il mondo che sembrava finire sui vetri anteriori dell’elicottero, oscurati dal turbinio marrone della sabbia, pian piano si stava allargando di nuovo. Tutt’intorno la solitudine del deserto. Non passò molto. All’improvviso la solitudine iniziò a crinarsi. L’orizzonte dinanzi a me incominciò a popolarsi di sottili figure nere. Uno, due, dieci. In un baleno una trentina di persone si materializzarono dal nulla. Erano tutte lì davanti, una accanto all’altra. Non si vedevano i visi, ma solo le loro figure slanciate e immobili. Erte sulla sottile linea che separava il rosso del deserto dall’azzurro del cielo, le silhouettes nere iniziavano ad avvicinarsi, quasi ad accerchiarci. La sensazione era inquietante. La zona era “non ostile”, per così dire, ma l’ordine scaturì di getto dalla mia voce, accolto peraltro con gran favore dall’equipaggio. “Tutti a bordo, pronti al fuoco, rimettiamo in moto”. Le mani dentro si muovevano veloci, precise. Gli occhi fuori a capire, a comprendere. Le figure si fermarono, stagliate lì, sull’orizzonte. Ordinate, quasi schierate, con intervalli regolari tra l’una e l’altra. Immobili. All’improvviso la linea ondeggia. Le figure saltano, ballano caoticamente, svuotano il centro della linea e si ammassano con grandi balzi ai lati. Poi una di esse, la prima della fila di destra, alza l’immancabile bastone che accompagna ogni somalo e inizia a percuotere violentemente la terra. Sei, sette volte, forse di più. Si ferma, picchia ancora una volta e poi si china. Raccoglie qualcosa e la lancia per aria. Non c’è dubbio adesso: quella è una festa. Lo si vede da come ballano, questa volta elegantemente, senza sgambettare come prima. E lo si sente dalle grida che arrivano oltre il rumore del motore. La “cosa nera” continua a volare in aria. Mi ricorda un’altra scena, molto simile, in un verde campo isolano di qualche anno prima.
Capiamo che le intenzioni “della linea” sono di amichevole curiosità e nulla più. Sempre in guardia, qualcuno va verso di loro. Ritorna e chiarisce il mistero. Tra le gambe delle nere figure era sbucato un serpente. Un mamba, altrimenti noto come serpente sette passi, il più veloce e forse il più velenoso al mondo. Si chiama così perché, quando morde, il malcapitato ha la possibilità di muovere solo sette passi, per l’appunto, prima di cadere stecchito al suolo. La Somalia è piena di questi adorabili animalucci. Che hanno peraltro la singolare abitudine di arrampicarsi con estrema facilità sugli alberi. Ragion per cui, si corre il rischio di assaggiarne i dentini sia dal basso, camminando negli spazi aperti, sia dall’alto, muovendosi sotto quegli alberi, a volte poco più alti di una persona.
Quindi, quando atterravamo fuori campo, o quando andavamo a dormire, oppure quando ci muovevamo semplicemente in ogni dove, il pensiero era rivolto a dove mettevamo i piedi, per evitare troppe “serpeggiamenti”.
Erano dappertutto, tanto che scegliemmo un nominativo per le nostre missioni ispirato appieno a questa caratteristica. Eravamo i “Mamba Flight”. A dire il vero, i mamba non erano solitari. C’erano diverse altre specie e soprattutto tanti cobra che, in tema di velenosità, fanno a gara con loro. Ma l’appellativo “cobra” ci sembrava troppo abusato, mentre quello di mamba ci dava un’idea di maggiore eleganza, originalità ed “efficacia”. Di conseguenza, imitando i mamba che erano dappertutto, noi andavamo ovunque. Come quel giorno che decollammo in coppia per spostarci sin quasi al confine con l’Etiopia.
Eravamo a pieno carico. Parte il leader, io lo seguo a qualche secondo. Sorvoliamo ancora bassi le dune abitate sul prolungamento dell’asse pista. Improvvisamente il leader sprofonda. Vira seccamente per il sottovento e nelle orecchie sento rimbombare le parole: “Emergenza, piantata motore”. Avrei voluto fare chissà cosa. L’unica era scortarlo a distanza, senza interferire con la sua rotta. Perde continuamente quota. Vira in finale. Lo vedo quasi a coltello, bassissimo. La pista è lì sotto, vicinissima. Scaccio con forza il pensiero del botto che sembra quasi inevitabile, per quant’è basso e appruato. Poi vedo che s’inarca con un colpo di reni. Atterra, anzi, sbatte per terra. Il rotore si flette così tanto che sembra quasi toccare il suolo.
Gli vado in coda. La gente schizza fuori dall’elicottero come saette. Che agilità ispira la necessità! Intanto una macchia inizia a dilagare e annerisce il manto grigiastro della pista. Un Aerosoccorritore, balzato fuori all’istante, m’invita ad andare via con gesti che sembrano quasi allontanarmi con la forza delle mani. Avevo capito però che quella fuoriuscita non poteva essere altro che carburante e stavo già schizzando via, quasi alla stessa velocità dei ragazzi che scappavano fuori.
Tutto finì bene. Sono assolutamente certo che la Madonna di Loreto stese la sua santa mano protettrice quel giorno. Bisognava vedere la scena in prima fila, per capire quanto fosse stata indispensabile quella mano. Tuttavia, fedele al motto “Aiutati, che Dio ti aiuta”, se andò come andò, fu anche perché in cabina c’era chi seppe magistralmente tornare a terra. Anni di passione e addestramento non passano invano e al XV l’addestramento è sempre stato una cosa seria. Il pilota aveva assorbito quegli ammaestramenti e li aveva anche tramandati nelle vesti di Istruttore.
Quella volta fu bravissimo, più che bravissimo.
E l’HH fu eccezionale: una vera corazza che, a dispetto delle condizioni impossibili in cui si trovava, per peso, temperatura e posizione, protesse il suo equipaggio e portò tutti a terra, illesi. Che macchina!
I voli continuarono. Questa volta ero io leader. Come al solito, volavo bassissimo. Sfioravo la verdeggiante chioma uniforme delle acacie che, di tanto in tanto, si aprivano a corona, disegnando cerchi pressoché perfetti sul bianco terreno sabbioso sottostante. Eravamo in un posto sperduto, lontano da tutto e da tutti. Bassi, a tutta velocità, il paesaggio scorreva rapidamente. Di colpo, il tempo iniziò a rallentare. Senza una ragione, senza un perché, avvertii quella sensazione. So solo che all’improvviso tutto sembrò muoversi a rilento, come in una moviola. L’anemometro non si era scostato di un nodo, ma le crespe chiome verdi iniziarono ad avvicinarsi a scatti. Sbucai in un tondo perfetto di sabbia bianca. Sempre al rallentatore. Lì, al centro preciso del tondo perfetto, si trovava un vecchio con un bastone in mano, dritto come un fuso, a piedi nudi e con una tunica addosso. Biancastra come i riccioluti capelli disposti attorno a un viso dalla pelle nerissima, rugosissima, sul quale spiccavano due grandi occhi neri.
Fissi, spalancati, attoniti, ma incredibilmente quasi calmi. Le sue pupille nelle mie. Il tempo si fermò del tutto. Quegli occhi mi raccontarono in una frazione di secondo millenni di cultura. Una civiltà antichissima che aveva portato un vecchio uomo a sopravvivere in un mondo difficile. L’uccello rombante gli era piombato addosso, veloce, fragoroso, minaccioso. Lui era rimasto lì. Avrà saputo della guerra tra la sua gente, lui, così solo in quell’angolo remoto? Quali saranno stati i suoi pensieri? Avrà mai visto prima qualcosa di simile? Cosa avrà pensato che fosse? Come l’avrà giustificato? Sarà stato solo assalito dallo spavento o sarà stato preda di un’immane meraviglia? Cosa gli avrà suggerito la sua ancestrale capacità di affrontare le minacce? Quell’incontro si è impresso indelebilmente nella mia mente. Credo di aver visto dal vivo le radici della vita, di aver vissuto l’incontro tra il passato primordiale e il futuro. Forse ho visto per un attimo da dove realmente veniamo.
Indimenticabile Mamba!