Il 7 ottobre 1985 un commando di 4 aderenti al Fronte di Liberazione della Palestina (FLP) dirottarono la motonave Achille Lauro, in crociera nel Mediterraneo, chiedendo la liberazione di 50 loro compagni detenuti in Israele.
Il giorno successivo fra le forze messe in campo, sia dagli italiani, sia dagli USA, figurarono 4 HH3F che raggiunsero la base RAF di Akrotiri sull’isola di Cipro.
Fu il primo intervento che ipotizzava l’impiego degli HH3F in un’azione bellica, e quindi CSAR, anche se i media riportarono che gli HH3F erano stati inviati per eventuale assistenza SAR alla motonave ed ai suoi passeggeri. La presenza sulla base degli incursori del col Moschin prevedeva, infatti, che questi si sarebbero avvalsi degli HH3F per il loro impiego.
Un giovane copilota, l’allora Ten. Giorgio RUSSO, ci conduce nel vivere, attraverso il suo avvincente racconto, i momenti di quella “avventura” che il lettore è invitato a leggere con gli occhi del 1985, quando l’Italia era lontana miglia e miglia dal tornare a pensare ad impieghi bellici dopo la fine della II G.M..
Si consideri, inoltre, che il successivo impiego bellico dell’Aeronautica Militare sarebbe avvenuto nel 1991, nel corso della prima guerra del Golfo.
SERPENTI E ALLORI
Il serpente frusta
– Gen. BA Giorgio Russo –
Il trillo del teledrin provocò la solita scarica di adrenalina. “Si parte”, pensai. “Chissà per dove. Cosa sarà successo?”. Mi precipitai nel bar più vicino. Ogni volta che uscivo, il percorso era rigidamente legato ai luoghi con i telefoni a gettoni. Roba da paleo archeologia delle comunicazioni. Ora iPhone e Galaxy sono porte in tasca sul mondo, la tecnologia avanza a velocità siderale, ma allora era proprio così. Nel 1985, chi montava d’allarme o di reperibilità come me, aveva una sola alternativa: rimanere attaccato a un telefono fisso tradizionale, oppure avere in testa la mappa dei telefoni pubblici e la loro distanza dall’aeroporto.
Poteva mancare qualunque altra cosa, ma non il kit fondamentale: il mitico Teledrin, una magica scatola nera che, tremando e squillando, indicava il numero chiamante, e gli indispensabili gettoni telefonici. Il ricordo ha decisamente il sapore del modernariato. In quel momento, tuttavia, c’era solo la voglia di esser pronto, di reagire. Pronto a tutto: non sapevo quanto fosse vero.
L’ignoto attendeva. Composi il numero e il mistero s’infittì. “Tenente, le passo il Comandante”, disse immediatamente l’Operatore. La voce era strana. “Vieni subito qua”, disse. “Ok, ma è un allarme?”, chiesi. “Vieni che ne parliamo, ma corri”. Quando aprii la porta della Sala operativa, mi chiesero come avessi fatto a essere già lì. Tra me e me pensai che speravo nella bontà dei vigili urbani. Gli autovelox erano lontani dall’apparire, ma i vigili erano molto attenti. Dalla bocca uscì solo la domanda che si era annidata nella mente sin dal momento della telefonata al bar sul corso: “Cos’è successo? Perché questo mistero?” Essere pronti a tutto non è un modo di dire. Un tenente pilota appena giunto al Reparto ha qualcosa dentro di sé che assomiglia molto a un vulcano. Nel senso che un’eruzione ha meno energia. Ovunque e comunque: è quello in cui crede ed io non ero certamente da meno.
La faccia dinanzi a me era molto seria. Trascorsero alcuni lunghissimi secondi. Poi si squarciò il velo. Pensavo a tante cose, ma ciò che sentii era davvero fuori dal comune. “Bisogna andare a Cipro. Hanno sequestrato una nave da crociera, l’Achille Lauro. Lì ci saranno i nostri Incursori. Dobbiamo liberarla. Riservatezza assoluta. L’operazione è della massima segretezza”. Da quel momento fu tutto un susseguirsi di preparativi. Alle domande incuriosite di quanti mi chiedevano dove andassi, rispondevo con un semplice: “Vado fuori per qualche giorno. Normale attività”. Attesi in base l’arrivo degli altri dai vari Centri. Saremmo partiti tutti insieme da Brindisi l’indomani. Andammo a dormire a notte inoltrata. L’ “Anima” del Gruppo, lo “Specialista” per eccellenza, aveva lavorato come sempre senza badare a sé stesso. Era tutto pronto, per noi e per quelli che sarebbero arrivati. Poi, di buon mattino, quattro poderosi HH3F si stagliarono in formazione nel cielo salentino. Destinazione, Akrotiri. A bordo alcune figure “storiche” dello Stormo. Rimasi ai comandi praticamente per tutto il tempo. Per me, l’unico posto in cui sedere è sempre stato solo e unicamente quello di pilotaggio. In crociera mantenemmo una formazione comoda. Tutti tranne uno. Il “mio” elicottero rimase in ala ed anche piuttosto stretta. Non potevo lasciarmi sfuggire una simile occasione. Il volo in coppia è fantastico, tra i miei preferiti, e volare isolati, avendo ore dinanzi ed elicotteri attorno, sembrava semplicemente un delitto, un vero peccato capitale. D’altronde l’HH in coppia sta magnificamente bene. Tappa in Grecia e poi l’atterraggio a Cipro, in una zona a sovranità britannica. Ci sistemammo in una struttura appena liberata da uno Squadron inglese. L’ambiente era essenziale, come da tradizione dell’antica Sparta, molto vicina a quel luogo. Uscii a guardare i dintorni.
Mi allontanai un po’. Dietro di me la nostra Task Force, intorno l’erba dei prati e nell’aria serena del pomeriggio che volgeva al tramonto, i raggi arancioni del sole calante. Pennellate caldissime di colore rotte qua e là da striature più scure.
Quella laggiù, però, era diversa. Non sembrava una venatura. “Forse uccelli? No, per nulla. Aerei? Ma sono troppo strani. La striscia è lunghissima e sono vicini”. Eppure eppure, era proprio così. In capo a pochi minuti, una lunghissima fila di elicotteri disegnò una diagonale in atterraggio sulla pista. CH 46 e 500 seguiti da lì a poco da un paio di C130. Coperti dall’erba, sparirono alla vista. Si dissolsero nel nulla. Tornai indietro e ripresi le attività di gruppo. Giunta la sera mi ripresentai in quello stesso luogo. Ero curiosissimo di sapere dove fossero andati quegli elicotteri. Lo scenario era incantevole. La sera, azzurrissima, era piena di stelle. Qualche lucina punteggiava l’orizzonte e l’aria risuonava del frinire dei grilli. Sembrava un’orchestra. La melodia fusa ai colori era affascinante. Nel buio si vedeva nitidamente il profilo di un hangar con il tetto a volta. Dalla sommità trapelavano barbagli di luce gialla, quasi rossastra. C’era qualcosa che attirava irresistibilmente.
Il silenzio della notte si era fatto più denso. Anche il frinire sembrava attenuato. Dovevo andare necessariamente a capire cosa fosse. Man mano che mi avvicinavo, avvertivo un sommesso brusio. Non ero sicuro di poterlo fare, ma girai lo stesso la maniglia di una porta laterale. Mi affacciai un po’ titubante: mi ritrovai nell’antro di Efesto. Dentro era un brulicare di soldati impegnati ad allestire elicotteri, provare equipaggiamenti, sistemare dotazioni d’ogni genere. Capii finalmente dove erano finiti gli elicotteri del pomeriggio e cosa trasportassero. Erano militari americani e avevano una caratteristica particolare: erano giganteschi! Tutto l’insieme faceva chiaramente capire che era qualcosa di speciale, di molto speciale. Dinanzi a me avevo, infatti, la Delta Force, l’unità di élite anti terrorismo.
Tornai di nuovo al campo. Incontrai quelli delle nostre Forze Speciali. Lo spirito era tipico di che è pronto all’azione. La notte lasciò frettolosamente posto alla luce del mattino. Iniziammo i contatti e i preparativi. Analisi e studio della situazione. Divisi in gruppi andavamo nei punti d’interesse, incrociandoci ripetutamente. Il sole era diventato caldo e le idee più chiare. Eravamo tutti concentrati.
All’improvviso apparve uno dei nostri. Probabilmente era di Furbara, forse no, ma ero troppo fresco di Reparto per conoscere proprio tutti quelli degli altri Gruppi. Il nome? Un mistero. Lo ricordo nitidamente. Avanzava dinoccolato dal campo con l’erba alta e sembrava che avesse in mano una ruota di bicicletta. Era un cerchio nero che agitava avanti e indietro con il ritmico movimento delle braccia in cammino. Sul volto aveva stampato un sorriso ghignante, quasi satanico. Gli occhi brillavano e lo sguardo era quasi da…folle, se posso usare quest’espressione. Andava incontro alla gente del gruppo e con una mossa rapidissima lanciava la ruota della bicicletta addosso ai suoi amici. Che si ritraevano di scatto, lasciando che le orecchie degli astanti si riempissero di esclamazioni pochissimo degne di figurare nel Galateo di Monsignor Della Casa.
Perché mai? Perché, mentre ondeggiava libera in aria, la ruota perdeva la sua perfetta circonferenza e disegnava sinuose spirali serpeggianti. Troppo perfette, per essere frutto del caso. La spiegazione poteva essere soltanto una ed era immediatamente evidente. Quella linea nera non si contorceva “come” un serpente, ma “era” un serpente. Più morto che vivo, ma sempre serpente. Non so quanto andò avanti quella storia. Cinque volte? Dieci? Non ho mai saputo chi fosse, né stranamente l’ho mai più rivisto. Ricordo solo che pensai: “È matto”. A dire il vero questa è la traduzione. La formula originale era in “lingua madre” (il mio dialetto natio) e le sfumature erano tutt’altre, ma la tavolozza non è di quelle presentabili in pubblico.
Quella bizzarra estroversione aveva però qualcosa di particolare. Sdrammatizzava, irrideva il pericolo, non per sottovalutarlo, ma per accattivarselo, per farselo amico. Una specie di rituale per giungere all’obiettivo con il favore degli dèi, avrebbero detto i nostri avi romani. Come gli incursori che, dal canto loro, stavano lì sornioni e irridenti, lo sguardo fermo e l’aria del gattone di strada pronto a respingere l’attacco dell’incauto gatto sfidante. Contatti, preparativi, la vita che scorreva in attesa del dunque. La notte si riempì nuovamente del canto dei grilli. La scena era da calma bucolica, se non fosse stato per il fuoco che ardeva sotto un silente manto di cenere fittizia. Nel silenzio fervente, pezzi e dispositivi apparivano e si combinavano come trasformers. Efesto forgiava le armi nel suo antro rosso fuoco, ma all’esterno non trapelava nulla.
L’indomani ci trovò già in attesa dell’alba. Incontri, contatti, riunioni e infine una sola parola: “Prepariamoci”. La nostra sarebbe stata una vera operazione joint e combined ante litteram. Allora non si usava troppo quell’espressione, ma in realtà stavamo facendo proprio quello. “Chi va?”, chiese il Capo. La mia mano si alzò al volo e pochi minuti dopo eravamo sulle carte. Sarebbe stata un’azione concentrica e l’HH avrebbe giocato un ruolo cardinale. La nave era italiana e noi saremmo stati i primi a scendere a bordo con le nostre punte di diamante: un vero e proprio assalto con rilascio d’incursori.
Mettemmo a punto ogni passaggio. Accanto a me, ognuno si preparava al meglio. Uno dei giganti esclamò un “Excuse me, sir”, per chiedere di spostarmi dalla cassa sulla quale ero seduto a consultare dei documenti. Alzò il coperchio e tirò fuori i suoi “arnesi da lavoro”, una panoplia.
Li provò uno a uno, con sequenze fulminee e la padronanza di chi vi gioca ogni minuto, scegliendo quello che gli piaceva di più. Sembravano assoli di violino, ma le note erano degnissime della fucina di Efesto. Continuammo. Noi e loro. Chini in circolo su una grossa carta, eravamo agli ultimi dettagli. Dietro di noi un brulicare di movimenti, di voci e rumori di chi fa e si prepara. Nulla fuori posto, tutto incanalato e noi concentratissimi sul da farsi, con il trambusto alle spalle.
Mancava pochissimo alla partenza. All’improvviso, il brulicare di formiche svanì. Quasi per incanto. Noi continuammo le nostre congetture, ma intorno stava accadendo qualcosa. Il ribollio si era estinto. Mi alzai a guardare intorno, cercando di capire. La voce che arrivò su passi svelti chiarì ‘arcano: “Ok, ragazzi, missione annullata”. La cronaca avrebbe poi informato il mondo che la trattativa diplomatica parallelamente intessuta su altri tavoli, aveva indotto i terroristi alla resa in cambio dell’immunità. La storia era solo al primo capitolo.
Ciò che sarebbe successo da lì a poco, avrebbe avuto riflessi inimmaginabili che si sono propagati sino ad oggi. Per noi, tuttavia, la missione era finita. Si rientrava. Decollammo in formazione. Possibilità di contraddirmi? Certamente no. M’incollai al leader per l’intera durata del volo. Ore e ore di coppia serrata che ridussero il tempo a pochi minuti, tanto era il piacere di stare lì, inchiodato. Per me era il massimo. Dietro, invece, qualcuno diceva la sua. Poteva essere diversamente, avendo a bordo un Aerosoccorritore particolarmente incline alla battuta fine e sagace?
Quel mio desiderio di non staccarmi mai gli rimase in testa e, per tutti gli anni a venire, ogni volta che ci siamo visti, in un modo o nell’altro ha richiamato quell’episodio, con il sorriso e la battuta intelligente che erano i suoi tratti caratteristici.
“Lì cementammo inconsapevolmente un bellissimo rapporto”
Poi sono arrivati i tanti trasferimenti, che hanno portato inevitabilmente ad andare in zone lontane. In questi casi il cuore resta legato, ma a volte non sei più aggiornato in tempo reale su tutti i fatti e le vicende. Accade così che un bel giorno vado finalmente a una cena del XV e incontro di nuovo tutti quelli che non vedevo da tanto tempo.
Abbracci e saluti, ma ne manca uno. Impossibile non notarne l’assenza, visto che era una colonna portante anche di questi eventi. “Chissà perché non c’è”, mi chiesi. Ero certo che sarebbe arrivato, magari in ritardo, ma sarebbe venuto: non poteva mancare. Quando il Presidente si alzò per il discorso e, con aria triste, iniziò a parlare, stentai a credere alle mie orecchie. “Salutiamo una persona che stasera non è qui con noi”, disse, e aggiunse un fischio, unico e inconfondibile: fiu, fi, fi, fiu. Il sangue mi si gelò e capii perché non c’era. In quel momento il pensiero volò a quella missione di rientro da Cipro, a quello che ci dicevamo quando ci incontravamo e anche a una bellissima lettera che mi scrisse un giorno, sorprendendomi oltre misura. Non si può spiegare quella sensazione. La bellezza dell’Equipaggio è questa. Piccoli gesti e brevi parole che si trasformano in qualcosa d’importante per la vita. L’individualità è essenziale, ma la squadra è la sublimazione dell’individualità. Devi viverlo, per capire.
Eravamo rimasti però al ritorno da Cipro. So che ho una foto, ma dopo l’ultimo trasferimento, parte della mia casa continua a soggiornare in un deposito di mobili. So anche, però, che tra un paio di mesi o poco più, quando mi sarò nuovamente trasferito, quella foto ritornerà alla luce. Sarà la stessa foto che mi accolse al varcare della soglia di casa. Era la schermata del Televideo, in bianco e nero (altro vero reperto mesozoico) che diceva: “Oggi, quattro elicotteri HH3F sono decollati da Brindisi per Cipro..”. “Non avevi detto che sarebbe stata una normale attività?”, qualcuno di molto vicino mi chiese varcando la soglia di casa. La cosa era segreta, ma non lo era stato proprio del tutto, evidentemente.
Non fu l’unica scoperta. Parlando del più e del meno, senza un riferimento preciso a quell’avvenimento, qualche tempo dopo scoprii anche cos’era quell’incantevole melodia che mi accompagnava mentre vagavo tra i prati delle piste. Frinio di grilli? “Ma quali grilli e grilli”, disse il mio interlocutore, che da vero Maestro al quale devo tutto nella mia vita, mi chiarì anche quest’aspetto. Scoprii così che i musicisti di quella fantastica orchestra non sedevano su un palco, ma strisciavano per terra, e il suono che si spandeva nell’aria non proveniva da luccicanti ottoni o da eleganti strumenti in ebano e palissandro, ma si sprigionava da chissà quanti di quei lunghi serpenti neri, non a caso denominati serpenti frusta, tutti fratelli di quella “serpeggiante ruota di bicicletta” che un giorno volteggiava per aria.