di Antonello Albanese
Quindi, il 15° Stormo si ritrovò destinato ad accogliere il neo nato Servizio Antincendio Boschivo sui Canadair CL215.
“Ma i piloti??? Dove li troviamo i piloti? Che caratteristiche devono avere?”
E così si iniziò con rispondere alla domanda:
“Cosa deve fare l’aeroplano?”
Il ragionamento fu il seguente:
E’ un “Water bomber” cioè un “bombardiere d’acqua”, deve gettare acqua sul fuoco, quindi su un target, volando a bassa quota e quindi con la mentalità da “attacco al suolo”.
Il pilota ideale quindi sarebbe stato uno proveniente dalla linea cacciabombardieri, magari da affiancare ad uno della 46 ª B/A che già svolgeva dal 1980 quel lavoro “semplicemente” con bestioni ancora più grandi ed impegnativi del CL215 come il C130H ed il G222 equipaggiati con il modulo MAFFS.
Secondo quella logica, era necessario creare un equipaggio misto, ove si potessero mescolare le esperienze di personale proveniente dalla linea caccia bombardieri (quelli più “guerrieri”, perchè “volano raso terra” e sparano al poligono), quelli della linea plurimotori (più avvezzi ai velivoli pesanti e con motori convenzionali) e quelli della linea Antisom (già addestrati a volare in equipaggi misti AM e MM compositi e….a fare la guerra).
Servono poi piloti di provata esperienza e capacità, anche istruzionale, perché dovranno essere loro poi a prendere le redini dell’addestramento e travasare l’esperienza ai giovani.
Cominciò quindi una frenetica “ricerca telefonica” verso amici e conoscenti della linea aerotattica, al fine di individuarne qualcuno “volontario”, che effettivamente si trovò: si trattava di gente di una elevatissima esperienza professionale di volo, taluni anche arrivati “al capolinea” nell’impiego operativo presso il proprio reparto. Molti accettarono ben volentieri la sfida per prolungare la propria attività di volo di reparto, altri un po’ meno.
Più complessa fu l’attività di individuazione dei piloti plurimotori il cui mandato fu “delegato” ai poveri Comandanti di Stormo che, con le dinamiche interne dei singoli Reparti, decisero in pochissimi giorni chi sarebbe stato trasferito a Ciampino “d’autorità”.
Era un giorno di primavera del 1984
Ma chi se la sarebbe aspettata questa esperienza con i Canadair?
Noi, piloti di una certa età, pronti a goderci gli anni maturi nel nostro Reparto, con tranquillità e con piacere.
Noi che non sapevamo nulla di velivoli anfibi, di incendi boschivi e che avevamo a malapena sentito parlare di Protezione Civile in TV solo in caso di terremoti ed alluvioni.
Cosa c’entravamo noi con la Protezione civile ed i Canadair?
Quello era un lavoro per i Vigili del Fuoco, non per i noi Pilotoni dell’Aeronautica Militare!
Ormai tutti volavano, con elicotteri ed aeroplani: la Polizia di Stato, la Guardia di Finanza, le Capitanerie di Porto, gli stessi Vigili del Fuoco, le eliambulanze.
Tutti volavano.
Ed allora perché proprio noi stavamo per essere prelevati nel 1984 dai nostri Reparti e “spediti” a Ciampino per essere addestrati a volare su quello “strano” aeroplano? Un aeroplano che se fosse stato un po’ meno spigoloso sarebbe assomigliato al famoso “Catalina” di Bud Spencer.
Andò così.
Nel mese di Marzo del 1984 ci ritrovammo, in dodici, sulla base di Ciampino.
Arrivammo come una armata eterogenea: chi da Lecce, chi da Latina, chi da Cervia, chi da Pisa chi da Rimini e Gioia del Colle, ma anche chi da Roma perché era già in servizio agli Enti Centrali.
Ognuno di noi aveva volato su un aeromobile diverso da quello di tutti gli altri: chi era “cacciatore”, chi “plurimotorista”, chi Istruttore di volo, chi Multiruolo/utility presso una Squadriglia Collegamenti.
Che senso aveva? Perché eravamo così “sparigliati”?
Forse eravamo il fondo del barile? Qualcuno spesso si poneva questo interrogativo, auspicando che non fosse proprio così ma, comunque, non ne facemmo un problema.
Se eravamo stati scelti così, forse era perché qualcuno lo aveva voluto: ci doveva pur essere una logica.
Chi avrebbero potuto scegliere al nostro posto per l’impiego su una macchina cosi’ “brutta”? Forse giovani ufficiali in carriera? No certamente: il morale del Reparto nascente sarebbe stato equivalente a “zero”, senza entusiasmo, senza prospettive e, peraltro, pericolosamente azzardato.
A noi, piloti semi-parcheggiati presso i nostri aeroporti, ci stavano offrendo invece l’opportunità di allontanarci dai nostri amati Reparti, dei quali ormai eravamo i “veterani”, per fare qualcosa di nuovo, di unico in Aeronautica e riaccendere l’entusiasmo di quando eravamo giovani aquilotti.
Iniziammo dunque a tirarci su le maniche.
Ci trovavamo nella sede di un Reparto, il 15° Stormo, che faceva Soccorso su terra e su mare, di giorno e notte, trasporti sanitari ovunque comprese tutte le nostre isole piccole e grandi, trasportava partorienti, grandi ustionati, organi per trapianto: in definitiva, soccorreva chiunque si trovasse in Imminente Pericolo di Vita 365 giorni l’anno. Per loro non c’era differenza fra estate e inverno, feriale e festivo, Natale e Pasqua, ma solo “quotidiano impegno”.
Noi, scaltri piloti “vecchi volponi”, eravamo stati mandati in mezzo a questi equipaggi che “erano puri” e che facevano del soccorso alla vita umana la loro missione irrinunciabile.
Loro salvavano vite umane, noi saremmo stati chiamati a salvare alberi.
Inizialmente ci fu molta incomprensione fra noi e l’integrazione fu complessa.
Erano i tempi dell’Aeronautica del “Centoquattro” e pochi della stessa Forza Armata, compreso noi, conosceva la realtà degli “elicotteri” e del 15° Stormo. Nessuno di noi capiva che l’Aeronautica Militare aveva messo sulle spalle del 15° Stormo un impegno che era più grande di lui.
Era un Reparto ricostituito nel 1965, ma che solo 7 anni prima di quel 1984 aveva iniziato la transizione sul nuovo HH-3F, ma nello stile dell’Aeronautica di allora: “questa è la nuova macchina, arrangiatevi”.
Il 15° Stormo di Ciampino era dislocato in due vecchi hangar metallici residuati della 2 Guerra Mondiale, privi di qualsiasi facility ed il limitatissimo supporto logistico fornito dal Comando Aeroporto era più proiettato a sostenere gli altri coinquilini, ossia “i piloti con i guanti bianchi del 31° Stormo” che le silenziose formichine del 15° Stormo.
Nonostante la modernità del nuovo elicottero , certamente il mezzo più moderno dell’A.M. di allora, la catena logistica non era stata adeguata: l’efficienza degli elicotteri era bassissima a causa della carenza di pezzi di ricambio; gli hangar fatiscenti erano privi di sistemi di riscaldamento/condizionamento ed i portali si aprivano ancora “a mano”; per le delicate operazioni di cambio dei motori e delle trasmissioni degli HH-3F veniva impiegata la gru mobile “Belotti” prestata dall’autoreparto perché non era disponibile un carro ponte; in tutto lo Stormo erano disponibili solo 3 autovetture, delle quali 2 “interno campo”; le mense osservavano rigidamente i canonici orari di apertura/chiusura, senza minimamente tener conto dell’impiego H24 degli equipaggi del SAR; i piloti indossavano spesso equipaggiamenti da volo usurati, scaduti e molte volte “personalizzati” a causa della indisponibilità di materiale di vestiario fornito dall’Amministrazione.
Insomma, mancavano di tutto, anche del sostegno morale di una Aeronautica Militare spesso apparentemente poco sensibile alle esigenze dei Reparti convenzionali.
Nonostante la limitatezza delle risorse, il 15° Stormo era comunque pienamente e miracolosamente operativo con personale che lavorava con grande impegno e generosità.
A questo punto però si scontrò l’aspetto “umano”, fra chi si aspettava “solidarietà” e chi, da buon padre di famiglia, doveva trovare le risorse per far mangiare i propri figli con il portafogli vuoto e nella consapevolezza che nessuno avrebbe provveduto a riempirlo; fra chi pensava di essere stato “prescelto” dalla F.A. per iniziare un’attività di prestigio e quindi di dover ricevere le massime attenzioni e chi ormai lavorava da anni con spirito di rassegnazione arrangiandosi con il “fil di ferro” ed il panino portato da casa; fra chi era stato da un giorno all’altro trasferito ed aveva visto lo stipendio ridursi e chi aveva sempre convissuto con gli stipendi più bassi fra i naviganti pur assicurando un massacrante servizio H24; fra chi proveniva dalla linea jet e lo Specialista per lui era “quello che lavava i vetri” e chi invece lavorava in maniera perfettamente integrata ed intrecciando con lui profondi sentimenti di amicizia.
I giovani piloti del 15° Stormo, tuttavia, guardavano a noi con una certa ammirazione, mentre quelli anziani sembravano più pervasi da sentimenti di “lotta per la sopravvivenza”, diffidenza ed indifferenza che inizialmente portò ad inevitabili “attriti”.
Fu una guerra fra poveri ove non vinse nessuno e, reciprocamente, impiegammo più di un anno a “comprenderci”, conoscerci, stimarci, grazie allo sforzo del Comandante del 15° Stormo del 1984 che, da ”Signor Comandante”, era tutto teso a fare del suo meglio per far andare avanti la baracca.
Nel mese di Agosto del 1984 peraltro, il 15° Stormo subì un gravissimo incidente che di certo non favorì, comprensibilmente, lo scioglimento dei nodi.
Nonostante ciò, silenziosamente, cercammo di non sentirci meramente “un corpo estraneo”, ma di spalmarci all’interno del Reparto: inizialmente, vista la mancanza di locali, venimmo “ospitati” dalla 615ª Squadriglia Collegamenti, anche perché il suo Comandante aspirava fortemente a divenire pilota di Canadair.
Passarono diversi mesi prima che al neonato 46° Centro fossero resi disponibili alcuni locali, “rimediati” non senza sofferenza (ed insofferenza) dei vecchi “inquilini”, presso l’hangar “Comando”.
L’addestramento con gli istruttori Canadesi
Ci presentammo quindi ai nostri istruttori: venivano direttamente dal Canada ed avevano addestrato la gran parte degli equipaggi Canadair in mezzo mondo.
In particolare il più anziano, Bill, era proprio un “manicaccio” che trattava il “Cielle” con la disinvoltura e la leggerezza di un “paperozzo”, con migliaia di ore di volo sul Catalina, su altri idrovolanti e sul CL 215 come istruttore della stessa Canadair.
Peccato che….parlavano solo inglese ed alcuni di noi trovarono non poche difficoltà di comprensione, anche in volo.
Ma, soprattutto, finalmente, potevamo toccare con mano e guardare il Canadair CL-215: spigoloso e tondo, spartano, due grossi motori convenzionali stellari Pratt & Whitney R-2800 a 18 cilindri con 2100 CV ciascuno, col ventre a forma di barca: sembrava un motoscafo al quale avevano aggiunto le ali ed una coda.
Brutto ma simpatico: aveva una “espressione” sorridente e pacioccosa, colorato di un brillante giallo-rosso così diverso dal grigio verde opaco al quale eravamo abituati.
Studiando il manuale, in inglese, intuimmo subito che non avendo servocomandi andava pilotato con la sola “forza bruta”: fu uno shock per i “cacciatori”, abituati a “pilotare con due dita” il loro jet, scoprendolo qualche giorno dopo in volo, oltre a doversi confrontare con tutte quelle “strane manette affiancate” della potenza, delle eliche, delle miscele, i comandi dei flabelli per mantenere costante la temperatura dei cilindri, ecc..
Tutto un altro mondo, ma che ci incuriosiva.
E poi i primi voli.
Solo per avviare quei due bestioni di motori da 18 cilindri c’era da sudare per la concentrazione necessaria: si doveva fare girare l’elica per tre o quattro giri con lo starter (per consentire all’olio interno di distribuirsi bene) e poi….. VIA, accensione!!
Una sbuffata azzurrognola…… e poi il rombo pieno degli scarichi, le vibrazioni e l’odore di olio bruciato: cose d’altri tempi, altroché il Catalina di Bud Spencer!
In pista poi…. tutto motore…. corsa di decollo…… “op” per aria……. via il carrello…… via i flap, sistemazione della potenza motore, riduzione giri eliche …… prua per il lago di Bracciano.
Questo lago era destinato a diventare familiarissimo: ci ha fatto infatti sudare per settimane, anche in considerazione che il velivolo oltre che privo di servocomandi era privo di qualsiasi sistema di condizionamento della cabina: ammaraggio e decollo, ammaraggio e decollo, ammaraggio e decollo…. all’infinito,.. fino a quando non imparammo.
Poi ritorno a casa con prua per Ciampino: atterraggio e decollo, atterraggio e decollo, atterraggio e decollo fino l’ultimo atterraggio. Scendendo dall’aeroplano si notava che le tute verdi degli addestrandi erano ampiamente scurite perché intrise di sudore……. ma le missioni erano strutturate così.
Imparammo relativamente presto sia ad ammarare sul lago che ad atterrare sulla pista.
Ma questo era solo l’inizio: il meglio (o peggio) doveva ancora arrivare e Bill ci preavvisava la differenza della tecnica tra operare sul lago e sul mare.
Infatti bisognava imparare l’impiego operativo del velivolo in primis “pescando l’acqua”.
Molte persone ancor oggi pensano che il Canadair per rifornirsi d’acqua debba ammarare, mettere in moto delle pompe e aspirare l’acqua dalla superficie.
Magari fosse stato così semplice!
Il nostro Canadair, era sì brutto e simpatico, ma anche ingegnoso e “complicato”: per riempire i serbatoti d’acqua infatti bisognava farlo strisciare in velocita sulla superficie… (lago o mare), come i sassi che i bambini lanciano sulla superficie per farli rimbalzare.
A questo punto era necessario far fuoruscire due piccole estensioni dette “probes” che erano posizionate proprio alla fine del “redan” (o “scalino”): l’acqua in pochi secondi, per pressione “dinamica” riempiva i due serbatoi. L’eventuale eccesso fuoriusciva da due grossi condotti nella parte superiore.
Tutto qui.
In pochi secondi, si caricavano fino a sei metri cubi d’acqua (6.000 litri, a seconda del peso del velivolo e delle condizioni): due appositi indicatori, posti sul cruscotto, ne indicavano istantaneamente la quantità imbarcata.
Grandioso.
Ma ora bisognava imparare.
E allora di nuovo …… sudata per mettere in moto…..rullaggio,…..tutto motore, ….decollo,….. ed il resto si sa, compreso che andavamo a Bracciano a fare “pesca acqua”, “sgancia acqua”, “pesca acqua”, “sgancia acqua” fino allo sfinimento.
Ed alla fine, abbiamo imparato!
Ma quanto era bello “andare al lago” in quelle belle giornate di primavera inoltrata, mentre tutti “andavano a lavorare”!! Ed era anche bello ritornare a casa con la tuta da volo inzuppata di sudore e “scurita” dietro la schiena e le ascelle!
Ma non era finita, perché adesso dovevamo anche “andare al mare”, mentre tutti “andavano a lavorare”.
Per l’addestramento in mare avevamo più “opzioni turistiche”: Circeo, Terracina, Argentario.
Il mare di fronte ad Ostia venne scartato sia perché si trovava nella ATZ dell’aeroporto internazionale di Fiumicino e poi perché era la spiaggia dei romani, quindi troppo affollata di bagnanti e ciò avrebbe impedito di lavorare sotto costa.
Così ci dirigevamo dove decideva l’istruttore canadese, in base alle previsioni meteo, la direzione e forza del vento.
Inizialmente, si volava nelle baie protette in prossimità di Orbetello e dell’Argentario, quando era necessario addestrarsi nelle condizioni più semplici, ossia con poca “onda” e scarso vento, per poi allontanarsi dalla costa verso il mare aperto ed il vento pieno, ovviamente nella fase più avanzata dell’addestramento.
Caricare acqua in mare, lo capimmo subito, era tutta un’altra cosa rispetto alle calme acque del lago. Innanzitutto bisognava individuare la direzione, intensità del vento e l’altezza delle onde, cose che non sempre sembravano in relazione fra di loro: dovevamo affrontare la superficie del mare contro vento e perpendicolari al moto ondoso, in specie quando le onde erano alte.
Se avessimo sbagliato le valutazioni sarebbero stati guai! Capimmo subito quanto era “dura” la superficie marina collezionando i primi rimbalzi “pesanti” ……che ci confermavano – come anticipato da Bill – l’importanza di acquisire la giusta tecnica per entrare, manovrare ed uscire in sicurezza e senza danno dalla manovra delle “scoop”.
E così, con pazienza, tanto impegno e qualche “strizza”, imparammo anche ad essere dei lupi di mare, a scrutare le onde a valutare il vento: incredibile! Chi l’avrebbe mai immaginato poche settimane prima?? Noi aviatori, “vecchi volponi”, intenti a scrutare il mare come un capitano di lungo corso.
Dopo aver preso dimestichezza con il “basico”, imparammo a sganciare con precisione il nostro mega-gavettone” su bersagli che gli uomini di terra del Corpo Forestale dello Stato ci preparava sia in prossimità dell’Argentario sia dalle parti del Circeo e Fondi.
Adesso sapevamo pilotare il nostro “brutto anatroccolo”, decollare ed atterrare da terra e dall’acqua, caricare l’acqua e sganciarla sui nostri bersagli artificiali ma ……come sarebbe stato sull’incendio vero?
Immaginavamo ovviamente che sarebbe stato molto diverso e che qualcuno, almeno in parte, ce l’avrebbe insegnato.
Lo stesso problema si sarebbe presentato per il pescaggio dell’acqua: il nostro lago, Bracciano, lo conoscevamo ormai bene, ma nella realtà di domani in quali laghi saremo dovuti andare ad operare? Chi ci avrebbe confermato l’idoneità o meno di quel lago? Come avremmo applicato – nella pratica – le prescrizioni tecniche del manuale circa le lunghezze?
In mare, poi, sapevamo che avremmo dovuto allontanarci dai “nostri” soliti posti e, quindi, avremmo trovato ogni volta condizioni di vento e di onda diverse e sempre imprevedibili.
Tutto questo lo avremmo dovuto imparare da soli senza l’aiuto del “manicaccio canadese”.
Ormai conoscevamo bene il nostro Canadair perché l’addestramento era stato eccellente, ma operativamente dovevamo ancora crescere e di questo ne eravamo tutti consapevoli.
Finimmo il corso a fine estate e fummo qualificati in dodici: sei Capi Equipaggio e sei Co-piloti, con tanto di diplomi di qualifica della Canadair, firmati da Bill in persona, nel corso di una semplice cerimonia presso l’hangar di manutenzione dell’Alitalia.
Poco prima la fine del corso, era arrivato allo Stormo anche l’Ufficiale che sarebbe diventato il nostro primo comandante di Gruppo. Non aveva ancora un ufficio e si era sistemato anche lui presso la Squadriglia Collegamenti: verificava tutte le carte dei nostri voli, i nostri stralci, leggeva tutto ciò che per lui era “nuovo” e, come noi, lavorò sodo per cercare di dare “concretezza burocratica, forma e sostanza” a ciò che fino allora era stato solo quasi “chiacchiera ed improvvisazione.
Il 18 Agosto del 1984 peraltro, un HH3F durante una missione notturna di Soccorso in mare che prevedeva il recupero di un marinaio da un sommergibile francese impattò la superficie del mare ed il Capo Equipaggio perse la vita. L’incidente ebbe due conseguenze: la prima fu che il Comandante di Stormo rimase ovviamente molto impegnato nel mese successivo per le procedure ed azioni ad esso correlato senza poter fornire alcun supporto, la seconda fu che anche noi avemmo la conferma di qualcosa che già avevamo intuito: “il mare poteva essere molto, ma molto cattivo anche con noi”.
Il 46° Centro Protezione Civile
Il 46° Centro Protezione Civile nacque ufficialmente con Decreto Ministeriale il 15 ottobre 1984.
Ma perché venne nominato 46°?
Il 15° Stormo aveva a disposizione due numeri, il 46 ed il 47: erano due Gruppi di volo del 15° Stormo Bombardamento Terrestre del 1931, ma posti in posizione quadro alla fine del 1943 quando il 15° Stormo venne sciolto.
Il nuovo Comandante di Stormo, che aveva preso l’incarico a Settembre, scartò subito il 47: “Nella cabala napoletana vuol dire morto che parla: non porta bene” , disse.
E fu così che venne scelto il 46.
Nessuno di noi capì subito perché diventammo Centro e non Gruppo.
In realtà il motivo era semplice: se avessero chiamato “Gruppo” tutti e 5 Reparti di Volo del 15° Stormo, esso sarebbe diventato una “Brigata Aerea”, con tutte le conseguenze del caso come quella di avere un Comandante con il grado di Generale.
Il Comandante del neonato 46° Centro si insediò qualche giorno dopo con semplice cerimonia che si svolse nell’ufficio del Comandante di Stormo, senza nessuna retorica o la solennità tipica di quelle occasioni.
Finalmente però eravamo diventati un Reparto, o meglio “Centro”, ma comunque un Reparto.
Finalmente il 15° Stormo riuscì a renderci disponibili degli ambienti ove predisporre gli uffici lasciati dal CASE (Centro Addestramento e Standardizzazione Equipaggi).
Dovevamo però ancora decidere una strategia su cosa fare, come fare e cominciare a volare.
Mel mentre, uno di noi, già istruttore di volo presso la scuola Volo Basico Iniziale ad Elica di Latina ed un atro pilota esperto alla 46 Brigata Aerea di Pisa, furono nominati Istruttori di Specialità sul Canadair e si presero l’oneroso carico di addestrare i nuovi piloti assegnati e poter così iniziare tutto un lavoro preparatorio per essere pronti ad operare in campagna antincendi.
Sapevamo di non avere molto tempo poiché, al contrario dell’immaginario collettivo, in alcune zone d’Italia come la Liguria gli incendi si sviluppano in pieno inverno, già a gennaio.
Si discusse a lungo con il nuovo Comandante di Stormo su come addestrare ed impiegare gli equipaggi e realizzammo quanto già deciso in precedenza circa la presenza in equipaggio della figura del motorista a bordo e più precisamente del TEV (Tecnico di volo).
I canadesi, operativamente, volavano solo con due piloti. Noi pensammo però che la presenza di un terzo uomo, il TEV, sarebbe stato un insostituibile “valore aggiunto” alla ricerca della massima operatività con la massima sicurezza.
Secondo il Comandante, la composizione dell’equipaggio doveva rispecchiare in pieno le iniziali previsioni dello SMA, cioè doveva essere composto da un “plurimotorista”, un “cacciatore” ed in aggiunta un TEV.
Il plurimotorista avrebbe dovuto gestire il velivolo nei suoi aspetti tecnici e di risposta alle eventuali avarie, il cacciatore per impostare le traiettorie di sgancio dell’acqua sugli incendi come se fosse al poligono di tiro con il suo caccia.
Rimanemmo tutti a bocca aperta: era la prima volta, da quando arrivati a Ciampino, che sentivamo un Comandante “parlare chiaro”. In realtà, quel Comandante era proprio quello che “aveva studiato nella sua testa la questione Canadair quando prestava servizio al 3° Reparto dello SMA”.
Ed in effetti, eravamo esattamente sei plurimotoristi e sei cacciatori, giusto quanto occorreva per comporre i primi sei equipaggi: eravamo “sparigliati”, ma con giusta misura.
Iniziammo così, poco dopo arrivarono i sei motoristi, per lo più “strappati” al 15° Stormo, e completammo gli equipaggi.
La situazione però era abbastanza critica in previsione dell’impiego operativo sul fuoco: la macchina era nuova per tutti, le procedure operative e d’impiego tutte da inventare, la crew coordination certamente da implememtare ed il tempo disponibile pochissimo. Ma come fare?
La soluzione la trovò il Comandante di Centro che applicò al Canadair la stessa filosofia che veniva applicata nei Reparti AntiSom dai quali lui proveniva, ossia quella degli equipaggi fissi: ogni equipaggio venne composto da tre persone si, ma sempre gli stessi tre. In questa maniera, si facilitarono la reciproca conoscenza, fiducia e la sicurezza delle operazioni.
Non poteva essere che la decisione più giusta, pur se inizialmente furono molte le discussioni fra noi e le perplessità evidenziate, più che altro di carattere “pratico”:
“Equipaggi fissi? Mai sentita questa novità” ……
“Vuol dire che quando io vado in licenza tu non puoi volare senza di me?”…
“ Ogni equipaggio va in licenza nello stesso periodo? Anche il Motorista?”…
“Ma no, si può volare con chiunque nei voli addestrativi, ma si deve andare sul fuoco solo con il proprio equipaggio”…
“Ah, e chi altro fa ste cose?…….. “Gli Antisom lavorano così, e sono equipaggi da undici!”…. “Miiii… e tu cosa ne sai?” …”Sono Antisom!”…..
“Ah, sei Antisom? Potevi dirmelo prima. Quindi voi andavate in licenza tutti undici nello stesso periodo?…. “Certo, lì la parte operativa la comanda la Marina, mica scherzano i marinai. Ma è così da sempre, la “combat readiness” viene data all’equipaggio non all’individuo, è sempre stato così e per me è sempre stato logico”
“Ah, se è così possiamo farlo anche noi”….
“Penso che tu non abbia capito bene: non è che lo “possiamo fare” anche noi; lo “dobbiamo fare”, anche se il Comandante sembra averci chiesto “se lo vogliamo fare”, …….
“E perché?… “Perché è Antisom anche lui!”
“Miiii….due Antisom in un così piccolo Reparto!”.
Continuammo ad addestrarci e a prepararci ad andare sugli incendi.
Con l’aiuto dei due istruttori furono creati i sei equipaggi fissi cercando di bilanciare le capacità, i caratteri, le simpatie e i desideri di ognuno.
Rimaneva da realizzare una delle cose più importanti: ricognire quei laghi che per lunghezza e conformazione sembravano, almeno sulla carta geografica, essere idonei al pescaggio dell’acqua.
Fu un lavoro incredibilmente complesso, ma che portammo a termine in tempo utile: realizzammo un portolano con la analitica e dettagliata descrizione di tutte le superfici lacustri annotando per ognuno di essi anche gli elementi di criticità: i cavi dell’alta tensione dei dintorni, ostacoli nell’acqua, teleferiche da costa a costa, il livello dell’acqua, insomma, tutte quelle informazioni necessarie per poter operare in sicurezza.
Lo stesso portolano venne consegnato al Centro Operativo Aereo Unificato della Protezione Civile, per facilitare la loro attività di tasking.
Le prime semplici regole e procedure relative all’ attacco agli incendi, mancandoci l’esperienza sul fuoco, furono studiate ed adattate al Canadair grazie alla presenza fra di noi di due piloti che venivano dalla 46 Brigata Aerea di Pisa e che quindi già avevano operato sul fuoco reale con il G222 con il modulo MAFFS.: ricognire l’area dell’incendio per verificare la presenza di ostacoli (cavi, teleferiche, linee d’alta tensione, orografia, venti di caduta), verificare la presenza e la posizione delle squadre dei vigili del fuoco a terra, scegliere una traiettoria di attacco con via d’uscita “facile”, ossia in discesa ed infine mai entrare nel fumo.
Per il lavoro sul fuoco attingemmo a piene mani dal Manuale operativo della 46ª Brigata Aerea.
Tutto molto semplice da realizzare, almeno in teoria.
Fatto questo, ci ritenemmo pronti: adesso bisognava solamente mettere in pratica quello che non senza fatica avevano appreso.
Noi, piloti con il pelo, già professionisti del cielo avevamo dimostrato che si possono sempre affrontare e vincere tutte le sfide.
Quel giorno sul lago di Castelgandolfo
Ma non tutto è filato sempre “liscio”: anche noi abbiamo preso le nostre “strizze”, come quella volta sul lago di Castelgandolfo, quello “vicino a casa”.
Era una missione operativa in cui i nostri due Cielle, l’intera “flotta”, erano stati chiamati ad intervenire per un incendio nelle vicinanze di Tivoli.
Un equipaggio aveva già fatto sei sganci sul fuoco e si preparava a fare il settimo, quando……ecco l’imprevisto.
Il Capo Equipaggio istruttore era seduto a destra e, di conseguenza, il Co-pilota, in addestramento avanzato e che conduceva il velivolo, a sinistra: il CE aveva quindi le manette motore ergonomicamente un po’ più distanti.
L’aereo toccava l’acqua forse un po’ veloce, forse un po’ pesante, o entrambe le cose e si impennava innescando il fenomeno pericoloso del “delfinamento”.
Quando si innesca tale fenomeno, i piloti devono intervenire sui comandi con estrema rapidità e precisione, al fine di fermare l’incremento incontrollabile delle oscillazioni che portano inevitabilmente alla perdita di controllo del velivolo e l’impatto con l’acqua.
L’intervento dell’istruttore, pur se tempestivo, non riuscì che in parte ad evitare il delfinamento ed il Canadair quindi impattava la superficie del lago con una certa violenza fino a fermarsi.
L’aeroplano apparentemente integro ed era ancora con i motori in moto, cominciava ad imbarcare acqua, evidentemente per una falla creatasi. Il CE, accortosi della situazione e con il Co-Pilota ancora privo di sensi in seguito all’impatto, ordinava al motorista di andare in stiva per azionare le pompe di sentina: qualche istante dopo, appena il tempo di rigirarsi, notava il motorista scomparire sotto l’acqua che ormai aveva allagato l’interno dello scafo.
Il CE decideva allora di dare motore per fare flottare l’aeroplano impedendone l’affondamento e tale azione risultava efficace, nel senso che l’aereo, piano piano sotto la spinta idrodinamica dello scafo e quella aerodinamica del piano di coda, cambiava assetto facendo, fortunatamente, sollevare la carlinga, ormai quasi sprofondata nell’acqua e consentendo quindi all’acqua stessa di defluire all’esterno.
Nel frattempo, il motorista che era “sparito” sotto l’acqua che aveva invaso la carlinga nel tentativo di individuare il danno creatosi, riemergeva in stato di choc, ma con grande sollievo del CE che aveva temuto una più grave conseguenza.
Per fortuna in volo sopra il lago c’era il secondo Canadair che, contattato via radio, forniva indicazioni al CE al fine di far flottare il velivolo nella direzione giusta per farlo arenare su un fondale sicuro: infatti da quella posizione gli era impossibile avere questa cognizione della propria posizione all’interno del lago.
La situazione interna vedeva il co-pilota sempre svenuto, il TEV disteso a terra (ma vivo), l’acqua che aveva ripreso ad allagare la fusoliera.
Grazie alle indicazioni fornite dal secondo Canadair ed alla lucidità e freddezza dimostrata dal CE, l’aeroplano riusciva a raggiungere la riva, arenandosi sul basso fondale nei pressi del Centro Olimpionico di canottaggio ed i “naufraghi” raggiungevano la spiaggia, con velivolo ed equipaggio salvi, non senza prima aver risvegliato a suon di sberle il povero Co-pilota.
Nei giorni successivi il velivolo venne “alato” dall’acqua per mezzo di una gru ed una splendida squadra tecnica dell’Alitalia riuscì a riparalo in una decina di giorni: fu lo stesso CE protagonista della sfortunata avventura a “riportarlo a casa” a riparazione ultimata.
Si capirà in sede di indagine e riparazione che la causa del tutto era stata una falla creata da un martinetto del carrello che, sganciatosi dopo il secondo delfinamento, aveva sfondato la carlinga.
Il motorista rimase molto scosso dall’evento e decise di abbandonare ogni attività volativa.
Il CE dopo lo scioglimento del 46° Centro continuerà il suo servizio in AM ancora per qualche anno per poi congedarsi ed essere assunto dalla società di gestione civile dei Canadair sui quali volerà per altri venti anni.
La prima campagna antincendio del 1985
Nei primi mesi del 1985 si svolse una intensa attività addestrativa e di mantenimento delle qualifiche addestrative. Esso fu impostato e condotto secondo i criteri dettati dalle direttive della Forza Armata che furono da noi stesi rivisitate appositamente per la nuova specialità Antincendi boschivi.
Ogni pilota fu soggetto ad un apposito percorso di mantenimento. Inoltre, si iniziarono a qualificare, con cicli appositi, i primi nuovi piloti neo assegnati e si iniziò l’avanzamento di qualifiche di quelli già addestrati nel corso iniziale con i canadesi. Ogni singolo volo addestrativo veniva svolto e registrato tra varie tipologie di missioni predeterminate e conferenti all’acquisizione delle abilitazioni e qualificazioni.
Sul versante operativo, la campagna antincendi boschivi 1985 si svolse con due velivoli Canadair e sei equipaggi operativi.
Grazie alla notevole potenzialità della manutenzione, affidata al personale tecnico dell’Alitalia, l’efficienza si attestava fra il 97-98 %: in pratica, grazie a turnazioni manutentive continuative, diurni e notturni, ogni mattina i due velivoli erano quasi sempre efficienti.
Il nostro “datore di lavoro” era il Dipartimento della Protezione Civile che ancora oggi si trova in via Ulpiano a Roma: il suo Capo era il famoso “Zamberletti” (ndr: quasi nessuno sapeva che il suo nome di battesimo fosse Giuseppe), quello che dopo il “terremoto del Friuli” organizzò la Protezione Civile Nazionale e colui che fortemente volle che lo Stato italiano acquisisse i velivoli Canadair.
Il Dipartimento operava attraverso una sala operativa, il Centro Operativo Aereo Unificato (COAU) con il compito di soddisfare le esigenze d’intervento che pervenivano dal Corpo Forestale dello Stato e disponeva le missioni per lo spegnimento degli incendi boschivi agli assetti disponibili, aerei ed elicotteri di tutte le FF.AA. ed i Corpi Armati dello Stato.
Il Capo del COAU era il Generale Angelo Cavicchini, anche lui un ex “centoquattrista”.
In linea di principio, la linea di comando e controllo era semplice: l’operatore di servizio al COAU chiamava per telefono quello del BOC del 15° Stormo, forniva le coordinate UTM dell’incendio, il nominativo “I-SS” e la frequenza radio per il contatto con le squadre a terra.
Decollavamo al più presto, “passando” il piano di volo al CDA via radio. In volo ed “al volo” si pianificava sulla carta “a spanne”, utilizzando pollice e mignolo della mano come un compasso e calcolando piuttosto approssimativi “stimati”: confine FIR, arrivo in zona di operazione, quantità di carburante all’arrivo in zona di operazione e peso del velivolo, autonomia rimanente ed il più vicino aeroporto militare alla zona di operazioni per successivo rifornimento.
Ma non sapevamo quando saremmo tornati, se quello fosse l’unico obiettivo della giornata, se riuscivamo a mangiare un boccone, dove rifornire il carburante per l’eventuale task successivo.
Di certo “si partiva nell’incertezza” e poi,.. “strada facendo si vedeva”.
Quando il Canadair arrivava sull’incendio, aggiornava via radio sulla situazione la Sala Operativa. Se l’incendio era ampio, generalmente si manteneva la zona tutto il giorno e, spesso, era necessario rifornire e ripartire per continuare ad operare fino al tramonto.
A casa, nel frattempo, partito il primo Canadair, c’era subito pronto il secondo, per un’altra destinazione sicuramente. Raramente, in quel periodo, furono inviati due Canadair sullo stesso incendio.
Scoperta l’efficacia dell’intervento sul fuoco dei Canadair, tutte le Regioni ne chiedevano l’intervento ed era complesso per il COAU accontentarle tutte, poichè gli incendi erano veramente tanti.
Le difficoltà e l’impegno per noi non tardarono ad aumentare. Il COAU infatti voleva impiegare sul fuoco i Canadair al massimo delle possibilità, per tutte le effemeridi: ma ciò si scontrava con i limiti di impiego operativo degli equipaggi. Un equipaggio infatti, al massimo poteva essere impiegato per 8 ore e, quindi, era necessario pianificare anche il loro avvicendamento.
In tale maniera, grazie al sostegno dei P166 della 615ª Squadriglia, iniziammo a pianificare i cambi equipaggio al fine di rendere disponibile al COAU l’assetto secondo le sue necessità.
Quindi, quotidianamente, era necessario impegnare due equipaggi al giorno per ogni velivolo, e noi……eravamo in sei equipaggi!
Questo ritmo sarebbe diventato insostenibile.
Riuscimmo a “qualificare”, cercando di stringere i tempi dell’addestramento, un altro equipaggio e, con 7 equipaggi andammo avanti con incastri miracolosi e turni di lavoro al limite della sostenibilità.
A rendere più gravosa l’attività di servizio vi era anche lo scarso supporto logistico fornito dalle basi militari sulle quali eravamo indirizzati per far rifornimento o, talvolta, a pernottare: era complicatissimo riuscire a “farsi preparare un panino per cena”, o avere a disposizione una macchina per essere portati a mangiare una pizza fuori. Inoltre, quando si dormiva in aeroporto, spesso le camerette erano quelle “con il bagno in comune” e con le pareti sporche del sangue delle zanzare schiacciate, mentre altre formazioni di zanzare ci tenevano compagnia tutta la notte.
Dopo una giornata di “sudore” ed essere andati a dormire a mezzanotte, la sveglia alle 5 “rompeva quasi sempre un sogno” e, ovviamente, il bar del Circolo era chiuso e quindi neanche si poteva prendere un caffè.
Per il comandante del Centro non tardarono ad arrivare altre difficoltà, prevalentemente di carattere “umano”.
Tutti eravamo sempre impegnati, costantemente impegnati, inesorabilmente impegnati e quasi mai presenti “a casa”, ossia in base e spesso neanche in famiglia. In quel periodo però, nonostante lo stress accumulato, prevalse lo spirito di servizio e sacrificio, del quale la maggior parte dei militari è pervaso: la coesione, la condivisione, il senso del dovere, in altri termini “lo spirito di corpo” sostenne ognuno di noi e mai, nonostante gli immancabili mugugni, si verificò un solo fenomeno di “paraculismo”.
In realtà eravamo tutti “stressati”: la maggior parte stanchi oltre che per gli impegni di servizio anche per il logorante “pendolarismo” al quale erano soggetti, chi quotidianamente, chi solo nel weekend (quando era possibile) poiché vivevano lontani dalle famiglie ed ancora non erano stati assegnati gli alloggi di servizio.
Fu infatti poco prima di quella estate, che affrontammo il momento di maggior criticità sotto l’aspetto “umano”: erano in ballo sia la programmazione dei servizi di allarme che quella delle licenze e bisognava decidere cosa sacrificare: il lavoro o la famiglia.
Non c’era via di uscita.
Il Comandante capì subito la gravità della situazione e ci radunò.
“Se Armando Diaz avesse perso la guerra perché aveva mandato in licenza i suoi soldati del fronte lo avrebbero fucilato” – disse – “Quindi, capite bene che non posso dire alla Protezione Civile che lascio per terra un Canadair perché ho mandato in licenza gli equipaggi. Questo dovete saperlo che non può succedere. Siamo prossimi al mese di Giugno, quindi manderò in licenza un equipaggio per volta, per quindici giorni; a fine Agosto i sei equipaggi operativi avranno fatto un po’ di licenza estiva, ben meritata, gli altri andranno con lo stesso sistema a Settembre. Chiudetevi in una stanza e portatemi la programmazione quando è pronta”.
Scoppiò il finimondo:
“Ma chi c…. si crede di essere questo!!”….
“Che cavolo dico a mia moglie che vuole andare al mare a Luglio?? Ho già prenotato l’albergo! Tu che sei nel mio equipaggio, vuoi andare a Luglio? “
“No Luglio, no. Mia moglie preferisce Agosto”…
Andammo avanti così per qualche ora, ma senza decidere nulla: eravamo stanchi, bisognava affrontare l’argomento da riposati dopo averne discusso in famiglia ed averci “dormito sopra”.
E così facemmo.
Concludemmo la campagna estiva riuscendo a fruire i nostri quindici giorni di licenza, a parte la solita “pecora nera immancabile in ogni famiglia” che per non cedere sul principio rinunziò al suo diritto per ripicca. Almeno però con il suo atteggiamento, ne godettero gli altri.
La campagna antincendi 1985 fù caratterizzata dalla somma di tutti quegli elementi di criticità che spesso conducono ad un incidente di volo grave, che però non si verificò e non fù solo per fortuna.
Nonostante le moltissime ore di volo, la pochissima esperienza operativa sulla macchina, le precarie condizioni logistiche, il sudore versato, i “panini al volo”, le poche ore di sonno, la fatica, le tensioni fra di noi e le discussioni in famiglia, il “pendolarismo”, grazie alla nostra esperienza di “piloti col pelo” avevamo in mente un chiaro principio di fondo: “per combattere gli incendi ci vuole si “manico”, addestramento e tempestività, ma soprattutto calma, metodo, concentrazione ed equilibrio”, in ogni situazione.
E tutti, ma proprio tutti, almeno in volo dimostrammo di averli.
Verso la fine dell’anno, vennero consegnati altri due velivoli, portati dal Canada in volo dagli stessi piloti istruttori che avevano condotto l’addestramento iniziale e quindi il 46° Centro raggiunse la maturità operativa.
La fotografia
Nevio Lorenzoni era un “omone tutto d’un pezzo” alto, robusto e con una barbetta brizzolata che lo faceva somigliare a “Capitan Findus”, soprattutto quando fumava la pipa.
Ufficiale di complemento, pur non brillando nella “forma militare”, aveva molta, molta sostanza come “pilota” e, complice anche il carattere affabile e gioviale, si faceva ben volere da tutti: raramente infatti indossava gli scarponi da volo “dell’Amministrazione” adducendo le seguenti scuse:
“Quei scarponi so’ no schifo: dopo du vorte che l’ho messi se so’ aperti”,
oppure
“Ar magazzino nun ce stà er numero mio”
… e quindi indossava delle polacchine marroni fuori ordinanza, che ormai anche i superiori tolleravano, perchè “sò anche più comode” – diceva.
Pur essendo il Comandante della 615ª Squadriglia Collegamenti, gli piaceva volare solo con l’elicottero AB-212.
Un giorno gli chiesi: “Nevio, perché non voli mai con il Siai 208?”
Mi rispose: “Quel coso non mi piace. C’ha’r rotore troppo piccolo: non fa l’autorotazione”.
Un’altra volta gli domandai:
“Nevio, ma tu l’abilitazione sull’HH-3F l’hai fatta?”
Mi rispose:
“Ma che so’ scemo? Seee…e poi così me tocca fà pure gli allarmi! Io ‘a sera vojo sta’ a casa mia sur mare a Terracina!”
In effetti, Nevio aveva una bella casa affacciata sulla spiaggia di Fondi, molto vicina a Terracina e, per questo, il suo pendolarismo non gli pesava molto.
Raramemte dormiva in aeroporto, ossia solo quando era di servizio come Ufficiale d’Ispezione.
Ma, nonostante le apparenze e le espressioni da “ma chemmenefregammè”, era uno di quelli sempre presente e disponibile:
“C’è da portare un pacco a Brindisi: chiamate Lorenzoni”;
“C’è da prendere dei documenti a Rimini: chiamate Lorenzoni”;
“C’è da fare il cambio equipaggio del Canadair a Pisa: chiamate Lorenzoni”;
“C’è da prendere il Capo di SMA da palazzo e portarlo a Viterbo: chiamate Lorenzoni”.
Ed in effetti, lui era sempre disponibile e presente pur di “dormì nel letto mio ogni sera”.
Con i primi piloti del 46° CPC si era instaurato un rapporto di reciproca simpatia anche perché, durante il corso di abilitazione sulla macchina con gli istruttori canadesi, i non ancora assegnati al 15° Stormo piloti di Canadair erano stati ospitati nei locali della 615ª Squadriglia.
Come ogni Stormo che si comanda, i piloti “operativi” dell’85° Gruppo SAR poco sapevano su cosa effettivamente facessero “quelli della Collegamenti”: relegati in un “ufficetto” nel luogo meno visibile dell’hangar “Comando” e senza una insegna che ne evidenziasse la posizione, si accorgevano della loro esistenza solo quelle rare volte nelle quali gli HH-3F erano inefficienti e toccava a loro “montare d’allarme” con l’AB-212. Altrimenti, per loro la 615ª appariva nè più nè meno di un piccolo aeroclub privato a disposizione del Comandante di Stormo, finalizzato solo a “far mantenere il brevetto di ala fissa” ai soliti quattro privilegiati e “andare a scazzafottere” con il S208.
Ma non era così.
In Aeronautica infatti e ad ognuno in cuor suo, piaceva sempre credere di sentirsi “superiore all’altro” in funzione della velocità dell’’aeromobile su quale volava: i “Centoquattristi” ai “Gi-novantunisti”, i Gi-novantunisti a “Quelli dei Trasporti”, Quelli dei Trasporti (a loro volta i Ci-centotrentacchisti ai Gi-duecendoventiduisti) agli “Antisommisti” e questi ultimi superiori agli “Elicotterari”.
I piloti istruttori alle Scuole di Volo erano “fuori gioco” perché “mica sono operativi”.
Dei piloti del 303° Gruppo di Guidonia e del Volo a Vela a mala pena se ne conosceva l’esistenza, figuriamoci quelli delle “Squadriglie Collegamento”!
Ed il 31° Stormo?? Una chimera per super-raccomandati.
E così, i piloti “operativi” SAR sul mastodontico HH-3F, guardavano dall’alto in basso “i colleghi della Collegamenti” pur se ogni tanto “svolazzavano” con il Siai 208 portandosi come passeggero un loro specialista.
Insomma Nevio era diventato un “amicone” per noi del 46 °CPC.
Un giorno di tarda primavera, era previsto un volo addestrativo con il “Cielle” proprio nella zona di Fondi.
Lorenzoni lo seppe e commise l’errore più grande della sua vita, cioè quello di chiedere al suo più grande “amicone” pilota di Canadair:
“Se domani venite a Fondi, perché non passate davanti casa mia così vi faccio due fotografie? Magari potreste fare anche qualche sgancio! Fatemi un colpo di telefono prima di decollare così mi organizzo con la macchina fotografica sul terrazzo”
“Perché no?” – rispose il suo “amicone”, Capo Equipaggio di Canadair.
Il giorno dopo, in sede di briefing pre-volo il C.E. illustrò la missione:
“Bene. Dopo’r decollo ci dirigiamo verso Cisterna di Latina, poi Borgo Piave, Terracina e Fondi. Lì vediamo com’è ‘r mare, altrimenti facciamo degli scoop sul lago di Fondi. Poi …c’è Lorenzoni che ci vuole fa’ delle fotografie: tu sai ndò abita?”
“Certo Comandante” – gli rispose il Copilota, un giovane Tenente da pochissimo qualificato sulla macchina – “Conosco casa sua perché una volta ho volato con lui da passeggero sull’AB212 e ci siamo passati sopra. Dovrei ricordarmelo.”
Dopo una mezzoretta di volo avevamo già lasciato Terracina in direzione Fondi: il mare non prometteva bene.
“’Nnamo ar lago, daje” – disse il Comandante – “e poi ‘nnamo a trovà Lorenzoni”.
E così, dopo 4 o 5 scoop, decidemmo di “andare a trovare Lorenzoni”: ultimo sgancio sul lago in direzione sud, viratona a sinistra puntando il mare e già ancora prima di arrivare sulla costa intravedemmo la sua casa:
“Eccola – dissi puntando il dito – è quella là!”
Mentre la sorvolavamo effettuando una virata di 360° intorno, intravidi Lorenzoni che si affacciava sul terrazzo per poi rientrare a casa: poco dopo ne riusciva con la macchina fotografica sul treppiedi.
Iniziammo quindi lo show “fotografico”.
Ci dirigemmo a fare uno scoop sul lago, poi…… viratona larga a sinistra verso il mare per preparare il tratto “base” di quel circuito che ci avrebbe portato a sganciare l’acqua in mare davanti alla casa di Lorenzoni.
“TA-BOOM”: il rumore dei portelloni di scarico testimoniava il primo sgancio effettuato in direzione nord-sud.
Ritornammo al lago per un secondo “Scoop”.
Questa volta ci ripresentammo in finale in direzione opposta, sud-nord.
“TA-BOOM”: anche il secondo sgancio era stato fatto.
“Adesso je famo fare una foto dar davanti?” – mi chiese il Comandante, aggiungendo:
“Che ne dici: jo famo??” (jo famo = glielo facciamo) guardandomi con un sorriso “diabolico” del tipo “mò famo o scherzo all’amicone”.
Non aspettò la mia risposta perché aveva già deciso.
Ci dirigemmo per l’ultima volta sul lago.
Ricordo che facemmo un cortissimo scoop, il tempo di vedere gli indicatori di livello di carico appena alzarsi neanche “alla prima tacca”, dopodichè, facemmo un viratone largo a sinistra per entrare in quel tratto finale del circuito in cui il “target” non era la casa di Lorenzoni, ma Lorenzoni!.
Dalla mia posizione, seduto a destra, mentre eravamo in sottovento riuscii a vedere Lorenzoni, già in posizione di scatto, attraversarmi la visuale lungo tutto il finestrino di sinistra: vedevo contemporaneamente lui, già pronto dietro alla macchina fotografica sul treppiede ed il Comandante, tutto concentrato e……diabolicamente sorridente!
Quel sottovento fu particolarmente lungo: dovevamo fare un finale “lento” abbastanza per consentire al buon Lorenzoni di fare le foto frontali prima e durante lo sgancio dell’acqua.
“TA-BOOM”: l’ultima immagine che ricordo nell’istante dello sgancio è quella di Lorenzoni che, poco prima di essere nascosto alla mia vista dal muso del Canadair, scappa allontanandosi dal treppiedi.
“Che dici – disse il Comandante – l’hamo preso?”
Quando atterrammo a Ciampino, il Comandante ricevette subito una telefonata da Lorenzoni: non ho mai saputo quale fu la sua reazione a caldo e cosa si siano detti.
Ma qualche giorno dopo, quando lo incontrai, gli chiesi: “Nevio, come sono venute le foto?”.
Lui rispose sorridendo: “A li mortacci vostra! Se v’acchiappa mia moglie vi sderena. E meno male che avevamo tolto i tappeti! L’acqua è rimbalzata sul terrazzo, è entrata nel soggiorno, ha attraversato la cucina ed è uscita dal balcone dall’altro lato della casa. Comunque le foto son venute bene, tranne l’ultima…..a li mortacci!”.
Nel 2019, il nostro Nevio ci ha lasciato per sempre: da allora non ritorna più la sera a dormire nel suo letto della bella casa di Terracina.
Ma io lo ricorderò sempre cosi, come “un amicone” sorridente (anche dopo il mega gavettone), un “omone tutto d’un pezzo” alto, robusto e con una barbetta che lo faceva somigliare a “Capitan Findus”, soprattutto quando fumava la pipa.
La chiusura del 46° Centro P.C.
Il 15 ottobre 1988 l’ultimo Comandante di Gruppo T.Col. Carlo SAVAZZI lascia l’incarico; dopo quattro anni e mezzo il 15° Stormo non svolge più con i Canadair CL 215 il servizio antincendio. Anni pieni di esperienze, attività di volo e tantissimi “lanci”: ricorderemo sempre tutto e tutti quel periodo.
Immagini di gruppo :
Il 20 giugno 1989 il 15° Stormo cederà alla 46^ Brigata Aerea i tre G 222 del 46° Centro Protezione Civile.